Anni 70-5

Ambiente - Cultura - Lavoro - Scuola

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Raccontare quella storia non è semplice, in cui ricordi di un tempo e della tua giovinezza, si intersecano.

Sono mai finite le rivolte studentesche? Sono in fiume carsico che appare e scompare, riappare.

In modo sintetico possiamo ricordare: il ’68, il ’77, il ’90 (la Pantera) e ancora nel nuovo secolo.

Gli anni sono simbolici, in quanto il ’68 è iniziato nel 1966 nella facoltà di Sociologia di Trento, proseguendo nel 1967 all’Università Cattolica di Milano e alla facoltà di Architettura di Torino, ma nel ’68 tutte le università sono in agitazione e spesso sono occupate.

In Italia tra il ’68 e il ’77 vi è una continuità di fatto, anche se i soggetti sono differenti.

Nel primo periodo sono le università il centro del movimento, ma nella fase successiva studenti delle università e delle scuole superiori lottano insieme.

Tra gli studenti del ’68 e il ’77 cambiano anche le condizioni degli studenti coinvolti, se in una prima fase gli studenti sono di estrazione borghese, nel tempo iniziano a entrare studenti di estrazione diversa, anche di famiglie di impiegati e di operai, per la liberalizzazione degli accessi all’università.

Ci sono due dati che servono a spiegare il fenomeno, uno legato all’unificazione, nel 1962, della scuola media di tre anni uguali per tutti e l’abolizione dell’avviamento professionale e delle scuole d’arte, in cui confluivano i figli degli operai.

Successivamente, nel 1969, da qualsiasi scuola superiore (licei e tecnici) era possibile accedere a qualsiasi facoltà universitaria.

Quindi l’università di èlite si trasforma in università di massa.

Nello spazio di un decennio i figli dei ceti meno abbienti arrivano all’università, anche perché viene concesso il “presalario” agli studenti con famiglie a bassi redditi e una media scolastica oltre il sette, permettendo di proseguire gli studi anche a chi non poteva di pagarsi in parte gli studi, senza pesare molto sulla propria famiglia.

L’Italia è in fase di crescita economica (il boom italiano), dopo i drammi della guerra e sembra aprirsi una fase in cui sia necessaria forza lavoro a più elevata formazione.

Le scuole si aprono ai figli dei ceti meno abbienti, ma anche nella scuola entrano come docenti gli stessi ceti.

Negli anni precedenti solo nella scuola elementare si trovavano insegnanti di questi ceti.

Ho scritto come studenti e operai fossero uniti nelle lotte per trasformare la società italiana, o meglio volevano cambiarla in tutto, ma anche la scuola da quelle lotte viene trasformata.

Si ottiene che anche dalle scuole magistrali, che erano quadriennali e sfornavamo le maestre delle elementari, si potesse accedere a tutte le facoltà con un anno “integrativo”, per chi lo volesse.

Si ottiene che anche dagli istituti professionali, che dopo tre anni rilasciavano un diploma, si potesse proseguire per altri due anni e quindi accedere a tutte le facoltà.

In quegli stessi anni, precisamente nel 1974, nascono dalle lotte studentesche e sindacali due importanti conquiste nella scuola, i “decreti delegati” e le “150 ore”.

I “decreti delegati” ridefiniscono i poteri nella scuola, si creano gli “organi collegiali”, i genitori entrano in questi organi. Sono ancora oggi gli stessi di 40 anni fa, anche se qualcuno li vuole abolire (dicono “riformare”).

L’intenzione del movimento era quello del controllo della scuola da parte dei lavoratori, come si pensava anche nelle fabbriche ci doveva essere il controllo degli operai.

Non sono la stessa idea da cui si era partiti, ma in quegli anni si pensava che tutto fosse possibile.

Si pensava ad organi collegiali di tutti, non a rappresentanze di figure separati, docenti, ATA, studenti, genitori. Si voleva la democrazia e non una specie di parlamentini, come sono diventati e poi nel tempo hanno perso la loro forza, venendo svuotati di fatto.

Le “150 ore” sono una conquista dei sindacati metalmeccanici, che erano la categoria più avanzata e più forte, di permettere ai lavoratori di poter lavorare e andare all’università, concedendo 150 ore di permessi per studiare.

Ci sono ancora e sono concessi a tutti i lavoratori.

Il lascito più importante di quegli anni rimane la comquista del “tempo pieno” che in se riassume due aspetti importanti, tra di loro legati.

Nelle grandi città si trattava di tenere a scuola gli studenti delle elementari per aiutarli a fare i compiti e non solo, nella prima fase si trattava di un doposcuola e veniva gestito dai comuni, nella fase successiva si allargò e venne modificata la struttura dei programmi.

Vennero inserite nuove parti da studiare, non si trattava solo di imparare a leggere, scrivere e far di conto, ma anche di allargare gli orizzonti alla musica, all’arte, a studiare un’altra lingua.

Vi erano due docenti e gli studenti del tempo pieno stavano in classe 40 ore, mentre quelli del tempo normale solo 24.

Il limite di questa esperienza è che resto confinata essenzialmente al Nord.

Ma un aspetto non indifferente è (era) quello di permettere alle donne di avere più tempo libero e di poter lavorare, in quanto i figli erano a scuola, mentre esse erano in azienda o negli uffici.

Anche questo è stato messo in discussione, in questi ultimi anni, riducendo il tempo scuola, malgrado adesso sarebbe ancora più importante per la presenza dei “nuovi italiani”, figli degli emigrati stranieri, come erano i meridionali arrivati al Nord, a cui il doposcuola permetteva di allargare i propri orizzonti.

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